Dopo trent'anni è ancora lì, al suo posto. Nella libreria accanto alla mia scrivania, dove tengo i volumi più cari. Credo siano stati pochi, in questi trenta anni, i giorni durante i quali l'occhio non sia caduto su quei versi di Brecht, tenuti al riparo dal tempo che passa da una piccola cornice dorata.
La grande quercia gloria dell'imperatore
sta crollando!
E chi l'avrebbe mai detto!
Non il fiume, non l'uragano hanno squarciato
il gran tronco alle radici,
ma le formiche, migliaia di formiche
lavorando ogni giorno insieme, organizzate
per anni e anni!Bertolt Brecht. Il nome, trenta anni fa, non mi era del tutto nuovo, perché pochi mesi prima a scuola avevamo letto "Mio fratello aviatore".
A parte questo, il grande poeta e drammaturgo tedesco era per me uno sconosciuto.
Almeno fino al documento del 26 febbraio 1983, un pieghevole redatto dal Coordinamento degli studenti di Bagheria e di Palermo e dal Comitato popolare di Casteldaccia.
Appello degli studenti per la marcia contro la mafia e contro la droga.
Così recitavano, se non ricordo male, le prime righe del documento che, in quei giorni di fine febbraio, era dentro gli zaini (no, di zaini allora gli studenti non ne portavamo: per lo più erano borse a tracolla di ruvida tela color kaki, da esercito irregolare) di tanti studenti dei Licei e degli altri Istituti secondari di secondo grado di Bagheria e Palermo.
Un appello che si concludeva con un invito alla mobilitazione affidato ai versi del poeta tedesco. Ricapitoliamo: Brecht, gli studenti, un documento pubblico contro la mafia e contro la droga a Bagheria, nell'anno di grazia 1983.
Cosa stava succedendo?
Stava succedendo che migliaia di persone - le formiche della poesia di Brecht - forse con fatica, ma sentendo la cosa come ineludibile, si erano messe insieme per manifestare il proprio dissenso contro "mafia e droga".
Detto così, oggi, trenta anni dopo, sembra un truismo da talk show.
Oggi che antimafiosi si dicono anche ex Presidenti della Regione Sicilia condannati per concorso esterno in associazione mafiosa e grafomani condannati al 416 bis. Nel lontano 1983 - e pensare quanto sia lontano quel 1983 mi infonde un brivido, finora sconosciuto, di vecchiaia - non era affatto un truismo.
Si aveva da rischiare, ad assumere apertis verbis certe posizioni. Però, se le formiche avevano cominciato ad organizzarsi per attaccare la grande quercia del potere mafioso, qualcosa di veramente importante era successo.
Già, ma cosa?
Non credo si possa ricondurre il tutto a un evento puntuale, ben focalizzato, dai contorni netti. Succede spesso che i grandi eventi - e quello del 26 febbraio di trenta anni fa per molti versi lo è stato - siano innescati da una serie di concause che, per accumulo progressivo, sortiscono effetti di serendipità che nessuno avrebbe potuto immaginare.
La violenza efferata che durante il biennio 1981/82 aveva reso Bagheria e dintorni simile più a Beirut che al resto del Paese, aveva avuto come risposta una mobilitazione senza precedenti.
Senza precedenti non solo per la quantità dei soggetti coinvolti, ma per la loro diversità: diversità che fino ad allora aveva reso impossibile qualsiasi ipotesi 'politica' comune.
Sigle sindacali, Partiti politici, nomi illustri come Renato Guttuso e il Cardinale Pappalardo, l'ANPI, la Confcoltivatori, la Cooperativa La Sicilia, il mondo dello Scoutismo, Padre Govanni Muratore, Parroco della Madrice e mio docente al Liceo Classico, l'amico e maestro di umanesimo cristiano Franco Stabile, ma anche un giornale locale che è entrato nella storia, non soltanto di questo territorio, come Il Paese di Enzo Drago e dei tanti giovani intellettuali che allora ne costituirono la Redazione: tutti lavorarono insieme per l'organizzazione di quella marcia.
Una marcia: una moltitudine di persone che camminano verso una meta comune.
L'idea in sè, che fa tanto Pellizza da Volpedo, al quindicenne taciturno che allora ero, parve di una semplicità grandiosa. Non sapevo nulla, allora, di Capitini e di altre marce, ma l'idea stessa di mostrare il proprio dissenso camminando, portando fisicamente i nostri corpi a occupare le strade che di solito erano territorio 'padronale' della mafia e dei suoi killer, mi sembrò in qualche modo rivoluzionaria.
Non si trattava, infatti, soltanto di dire qualcosa: bisognava invece fare qualcosa, era necessario esserci. Fare le cose, e farle insieme: era questa la novità vera di quei mesi di attivismo febbrile. L'esempio più eclatante di tutto ciò, a mio parere, fu il documento del Consiglio di Coordinamento interparrocchiale di Bagheria, Casteldaccia e Altavilla che condannava, con toni e argomenti che nel mondo cattolico non avevano precedenti, almeno a mia memoria, la violenza mafiosa. "L'intercessione della Vergine Assunta in cielo ammorbidisca la coscienza dei violenti e rafforzi la nostra volontà contro il male".
Tali convergenze erano una novità assoluta, e non si fermarono certo alle rivendicazioni celesti.
Insomma, la violenza senza quartiere che ormai da mesi scandiva la vita della comunità al ritmo dei morti ammazzati; le foto di Letizia Battaglia e Franco Zecchin quotidianamente sulla prima pagina de L'Ora, giornale del pomeriggio, aggiornavano le notizie dal fronte; l'attesa del TG1, per vedere se il triangolo della morte fosse ancora una volta notizia d'apertura: tutto questo, a ripensarci oggi, rappresenta un chiaro caso di eterogenesi dei fini.
Quella violenza, così estroflessa, così irriguardosa e tracotante, doveva ridurci tutti al silenzio, per sempre, come sempre era stato, e invece...invece produsse un effetto imprevisto.
Diede una densità diversa al senso etico della comunità, lo raggrumò nella testa di molti e lo tradusse nella necessità comune di non sentirsi più complici - per silenzio e per passività - di ciò che ci stava succedendo: ci rese coscienti di un dissenso profondo, direi istintivo e quasi prepolitico. Un dissenso che almeno per un giorno andava gridato con compostezza e guardando il mondo negli occhi.
Da questo credo sia nata, oltre che dalla capacità organizzativa e dalla sensibilità politica di una miriade di "soggetti organizzati", la marcia del 26 febbraio 1983.
Scendere in strada e dire a chiare lettere alla tua città, ai tuoi vicini di casa, alla gente che conoscevi bene e al Paese intero che qui, a Bagheria, l'equazione del 'sono tutti una cosa', lo stesso miscuglio infame di cinismo e familismo amorale, non ci andava più bene.
Appunto, non "ci" andava bene.
Dietro quel documento, ingenuo ma sincero come tutto ciò che è parto spontaneo della migliore età, c'era un "ci", cioè un Noi che andava delineandosi nel segno della pluralità, ideologica e culturale. Il Noi del Coordinamento degli studenti di Bagheria e di Palermo.
Un Noi che è stato capace di accalappiare persino me, quindicenne timido, confuso e annichilito dallo spaghetti-western che da molti mesi vedevo consumarsi sulle strade di Bagheria, Casteldaccia, Altavilla Milicia.
Il triangolo della morte, secondo una sintesi giornalistica di successo.
Sull'asfalto intriso di sangue, il 26 Febbraio del 1983 le formiche evocate da Brecht si misero in marcia, con una fiducia così sfacciata nel futuro e nel cambiamento dal basso che nemmeno i versi del poeta tedesco giustificavano. Ma è la durata, si sa, il problema principale di ogni umana cosa.
In effetti, in gran parte quella fiducia fu mal riposta. O, più realisticamente, trenta anni sono un tempo troppo breve per produrre cambiamenti significativi nella cultura e nelle pratiche di una comunità. Comunque sia, di quella marcia ci si appresta a ricordarne il trentennale.
Una nuova marcia lungo la strada dei "Valloni", da Bagheria a Casteldaccia, dirà che l'emergenza non è finita; che alla mafia, per natura versipelle, bisogna contrapporre altre forme di resistenza e di condivisione; o che bisogna porre altre premesse, più lungimiranti e durature, per decretarne, un giorno, la sconfitta.
O forse ci dirà cose diverse che io non sono in grado, al momento, di intercettare.
Fra poco ascolterete lo schianto
e il tonfo tremendo!
Immensa una nuvola di polvere
salirà dopo il crollo.Nonostante il mio scetticismo, nonostante Brecht - che, a pensarci bene, forse non mi è mai piaciuto davvero - credo che il prossimo 26 febbraio 2013 ci sarò.
Sarò lì, lungo la strada dei Valloni, con i miei studenti. Li guardo e penso che questa volta toccherà più a loro che a me il tentativo di abbattere finalmente la quercia e di farne risuonare il tonfo quanto più possibile. Il nuovo NOI sono loro. Li guardo e nei loro volti, in molti dei loro volti, vedo gli stessi occhi, gli stessi lineamenti dei ragazzi che trenta anni fa marciarono come le formiche: e che ancora, dopo trenta anni, non hanno sentito alcun tonfo. Tranne quello, ben più terribile, della democrazia reale di questo Paese.
Maurizio Padovano
La grande quercia: un quindicenne alla marcia Bagheria Casteldaccia - di Maurizio Padovano
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