La sera del 24 dicembre del 1976 a Bagheria, paese della Sicilia continentale, viene ucciso un dirigente del Partito comunista, sindacalista, presidente della Coop locale. Si chiama Agostino Aiello. È passato quasi mezzo secolo, mandanti e motivi dell’omicidio rimangono ignoti nonostante sul delitto abbiano indagato inquirenti di primo ordine.
Maurizio Padovano, che nel dicembre del 1976 aveva otto anni, si mette alla ricerca delle ragioni politico-culturali del delitto e fa dei risultati della sua indagine un libro strano, Teste di ciaca. Strano perché non facilmente catalogabile. È un libro di storia della Sicilia non insulare del secolo scorso, un libro di ricerca alla Simenon della verità sul delitto, un libro di storia politico-culturale, un libro autobiografico. È difficile stabilire quando finisce l’uno e inizia l’altro genere letterario. Questo lo rende un libro ancora più intrigante.
Metto a fuoco l’aspetto che considero centrale del libro: cosa ha voluto dire essere stati comunisti nella Bagheria (in generale, in Italia) del secondo dopoguerra. Mi riferisco non al comunismo di quelli che negli anni sessanta erano giovani intellettuali che leggevano il Libretto rosso di Mao, manifestavano per il Vietnam, simpatizzavano per Fidel Castro e Che Guevara, attraversavano il sessantotto contestatore del capitalismo sfruttatore, criticavano l’incipiente società dei consumi, leggevano e non capivano qualche frase isolata di Marx. No, il libro non parla del comunismo di questi giovani privilegiati (privilegiati perché scolarizzati ai livelli alti) che avevano sostituito Dio col sogno di una umanità nuova – felice, libera, senza disuguaglianze, senza peccati – che chiamavano società comunista.
Il libro parla del comunismo del nonno dell’autore. Nato nel 1910, aveva imparato a leggere e a scrivere da solo, raccontava di essere diventato comunista all’età di cinque anni quando, lavorando come caruso nelle cave di pietra d’Aspra, è venuto a contatto con operai specializzati che nei momenti di pausa parlavano di socialismo.
Il nonno è la figura centrale del racconto di Padovano. È presente in ogni pagina, è presente soprattutto là dove non se ne parla. È il filo rosso che tiene insieme tutto il racconto. Soffermarsi sulla sua filosofia (comunista?) è fondamentale.
I pilastri portanti sono il lavoro e la responsabilità individuale. È quello che il nonno insegna al piccolo nipote: «Rispettare sopra ogni cosa colui che ciò che mangia se lo scutta sempre. Scuttarsi il pane: meritarsi sempre ciò di cui si vive, grazie al proprio impegno e al proprio ingegno». Il nipote, diventato adulto e professore, lui calvinista con simpatie comuniste, ripete: «Tenere per buon segno la fatica, soprattutto quando spezza le mani; la maglietta cupa di sudore di mio padre; il non pietire mai nulla e per nessuna ragione al mondo, per l’orgoglio di una luciferina autosufficienza: questo doveva essere l’ago magnetico della nostra bussola interiore. Il lavoro sarebbe stata la chiave che ci avrebbe spalancato la porta su un futuro migliore». «Dall’idea di lavoro non potevi mai stare fuori e anche i rari momenti di quiete, di fisiologico recupero dallo stress continuo, bisognava viverli con un sinuoso senso di colpa addosso». Mi vengono in mente i versi di Igazio Buttitta:
U gnuranti (…)
non sapi
ca tuttu chiddu chi tocca
è opira du ncegnu e di manu di cu travagghia;
e chi ogni mali e ogni beni
u fa u travagghiu e du travagghiu veni.
Il lavoro come fatica e come l’unico vero strumento di riscatto individuale. Comunismo? Gramsci una volta ha detto che le parole sono cappelli che possono coprire teste molto diverse tra loro. Quale testa la parola “comunismo” del nonno copriva? Il nipote, diventato lettore e studioso della letteratura specialistica, se lo chiede: «Quanto in linea con le più popolari evidenze ideologiche e dottrinali di quell’area politica? Non so dirlo, ma so che da quel giorno [della lezione filosofica del nonno], complice l’esempio continuo e quasi ideologico dei miei genitori, l’idea di dover fare il proprio lavoro al meglio, e di trarne così sostentamento e orgoglio, mi avrebbe condizionato per il resto dei miei giorni». E ancora: «nella vita non si conclude nulla se non si lavora fino a stamparsi i calli sull’anima».
Alla domanda di Padovano mi permetto di suggerire la risposta frugando fra le categorie usate dagli storici: il comunismo del nonno – «non ideologico, non marxista» – è un comunismo calvinista. Il calvinismo è la religione che accompagnò la nascita della borghesia europea proponendo di vedere nelle opere della intraprendenza e del duro lavoro di ciascun individuo il segno della grazia divina. Il lavoro individuale veniva così caricato di profondi significati religiosi.
Il libro di Padovano è popolato da comunisti calvinisti, teste di ciaca [di roccia] li chiama l’autore.
Primo fra tutti, il sindacalista Agostino Aiello: «Quando hai fatto tutto, non hai fatto ancora abbastanza» insegnava alla figlia Maria Concetta. Regola calvinista di vita che mi sono sentito ripetere più volte nella mia famiglia che comunista non era.
E poi Elisabetta Bellavia, una donna comunista nata nel 1926: «Lisabetta, mai avrebbe accettato, da comunista, la subalternità legale e istituzionale dell’individuo rispetto al Potere costituito, anche quello del Partito (soprattutto quello del Partito) come avveniva in Unione Sovietica o nella Repubblica Popolare Cinese». L’individuo, le sue capacità, la sua autonomia di giudizio, vengono prima di ogni apparato, compreso quello del partito, «soprattutto quello del Partito».
I genitori di Padovano naturalmente. E altri ancora.
Comunismo calvinista è un ircocervo concettuale e politico. Detto con parole più chiare: una impossibilità o contraddizione logica. L’aggettivo calvinista (tutto centrato sull’individuo, sul suo lavoro e sulle sue autonome capacità) e il sostantivo comunismo (tutto centrato sulla collettività totalitaria) fanno a pugni.
L’Italia della seconda metà del secolo scorso è segnata dalla presenza del comunismo calvinista del nonno di Padovano. È stata la forza e la debolezza di quegli anni. A Bagheria nacquero e si formarono alcuni dei comunisti calvinisti di statura nazionale e internazionale. Ne cito solo due tra quelli che non ci sono più: Ignazio Buttitta e Renato Guttuso. Me ne sono occupato in altre occasioni e coniai la formula ‘comunismo-non-comunista’.
Torno a Padovano. Il libro racconta con spietata sincerità autobiografica il successo individuale – che fu, contemporaneamente, fallimento collettivo – dell’ircocervo ‘comunismo calvinista’ vissuto e praticato in uno dei paesi, Bagheria, della Sicilia europea.
Il successo del proprio lavoro e della propria intraprendenza è per il fedele calvinista – lo ripeto – il segno della Grazia divina e, se lo raggiungi, sei in pace con la tua coscienza e con Dio: hai fatto «nel migliore dei modi possibili» quello che dovevi fare – altra massima familiare interiorizzata dal ragazzo Maurizio.
Quali sono gli scopi ultimi del comunista calvinista di Bagheria del secondo dopoguerra? Un pezzetto di terreno da coltivare in proprio, una casa di proprietà.
La casa, nel racconto, svolge un ruolo politico-esistenziale centrale. Do la parola all’autore:
«La parola casa, nel mio lessico famigliare, non indicava soltanto il luogo in cui abitare: era la tregua dopo una vita in affanno, il rifugio sicuro dalla tempesta dell’esistenza, la trincea dalla quale avremmo vinto la nostra guerra a cottimo contro il mondo intero. Abbiamo cominciato a sentirci parte della città – della sua storia complessa, delle sue tante dimensioni – solo dal momento in cui abbiamo potuto contare su di un pezzetto di mondo davvero nostro: una provincia dell’anima che chiamare casa è perfino riduttivo».
La casa «provincia dell’anima» è la cartina di tornasole del comunismo-non-comunista del nonno e dei suoi eredi. Qui il discorso si complica ulteriormente.
Immaginiamoci un borgo, siciliano ma potrebbe anche essere francese o tedesco o inglese, che in meno di due decenni passa da venti-trenta mila a sessanta mila, o giù di lì, abitanti. Più di metà dei venti-trenta mila indigeni pensateli come calvinisti, comunisti o non comunisti, che, grazie anche all’intraprendenza borghese del luogo, legittimamente sono nelle condizioni economiche di potere uscire dal catoio in cui abitano per aspirare a una casa di propria proprietà con camere da letto separate dalle stanze in cui si vive di giorno e, soprattutto, con servizi vari.
Una rivoluzione, economica e culturale, che avrebbe richiesta una lucida guida politica. Invece il processo, oggettivamente difficile, verrà governato dall’alleanza di grandi burocrati che sono politici, proprietari (molti di essi medi e piccoli) dei terreni su cui costruire, una dirigenza comunista che, anche usando l’armamentario lessicale (lotta di classe, lotta ai padroni) del marxismo realizzava anch’essa il sogno della comoda casa borghese «provincia dell’anima». Sono del tutto assenti figure come Agostino Aiello.
È una storia difficile da raccontare perché difficile da capire. Padovano ci prova. La racconta mettendosi coraggiosamente in gioco in prima persona:
«Sono cresciuto, ho sognato, ho vissuto, ho fatto figli, sto invecchiando in una casa che, come mille altre, è stata una casa abusiva. È nata come abusiva. (…) Realizzare il desiderio ancestrale di possedere un pezzetto di mondo in cui vivere e morire si tramutò nel consenso politico di fatto che l’intera città offrì all’arricchimento sconsiderato, miope, di quel ceto politico-affaristico».
Il racconto di Padovano non sempre convince. È però la migliore e più onesta analisi di cui disponiamo. Un ottimo punto di partenza.
Il libro l’ho letto come il resoconto di una terapia psico-politica dell’autore. Inizia con la descrizione magistrale del comunismo calvinista del nonno (consiglio di leggere le pagine molto coinvolgenti in cui si racconta l’omicidio della sorella del nonno: pp.73-85) e di Agostino Aiello. Si chiude con un personaggio «fuggito dalla Jugoslavia comunista» così commentato dal padre, comunista (?), di Padovano: «Lì non è come da noi, o si scappa o si fa la fame». Nelle ultime pagine si trova la chiave psicoanalitica del libro: «cominciai a sospettare che non ci fosse luogo dal quale si potesse bussare alle porte del paradiso».
Franco Lo Piparo
Professore Emerito Università di Palermo