È da qualche decennio, più o meno dalla fine degli anni '70, che Bagheria si è andata configurando - ad onta di una generale deriva sotto gli occhi di tutti - come comunità matura (?) che si interroga, in tanti modi, sulla propria storia e che tenta, con strategie e attori diversissimi, di scriverla. Nino Morreale, storico che ha avuto e continua ad avere tanta parte in tale processo, ha recentemente ricordato (lo scorso 18 marzo, a Palazzo Butera, in occasione del convegno dedicato a Giuseppe Branciforti) come la riflessione, matura e critica, dei bagheresi sulla propria storia si debba forse far cominciare con gli Appunti per una storia del territorio di Peppino Speciale del 1976.
Da allora in molti stanno contribuendo - ognuno con i propri mezzi e seguendo il filo rosso della propria passione - a questa opera collettiva. Nel 1988 Nuovo Cinema Paradiso e nel 2009 Baarìa di Giuseppe Tornatore hanno posto nuove condizioni per tale pratica condivisa: interrogarsi sulla propria storia di comunità, dopo quei films, ha significato anche interrogarsi sul peso che il cinematografo, con la sua storia sociale e culturale, ha avuto a Bagheria negli ultimi cento anni.
Mimmo Aiello e Biagio Napoli - i quali appartengono a una generazione che hanno trovato nel Cinema e nella frequentazione delle sale cinematografiche una forma privilegiata di bildung - si sono presi la briga di ricostruire e raccontare la storia della presenza e dello sviluppo delle sale cinematografiche a Bagheria e del demi-monde cui hanno inevitabilmente dato luogo, col suo corredo di miti e mimi (ché tanti episodi raccontati sembrano ispirarsi, sebbene senza la sua forza icastica, a Francesco Lanza, sospesi come sono tra il lazzo paesano e la massima patafisica). Prima con il volume Tornatore & Co. I ragazzi di via Sant'Angelo. Storia di un cineclub (2009) e adesso con Storie del cinematografo. Anime di celluloide a Bagheria (2015) Mimmo e Biagio raccontano - vestendo i panni del narratore popolare e omodiegetico, interno alla storia raccontata ma che aspira a dare un respiro corale alla propria voce - la storia del cinematografo a Bagheria come percorso privilegiato per la comprensione del senso di questo luogo.
Nel recente Storie del cinematografo. Anime di celluloide a Bagheria, soprattutto nella seconda parte del volume, gli autori ricostruiscono, incrociando efficacemente diversi tipi di dati e documenti - e talvolta testimonianze soltanto orali - la storia delle sale cinematografiche cittadine e del loro impatto sull'intero corpo sociale: ovvero la propagazione in progressione geometrica, generazione dopo generazione, delle anime di celluloide, come Mimmo e Biagio definiscono la "gente comune che ha la passione del cinema" (pag. 17). Una passione che in città ha avuto, pur in un flusso continuo e intergenerazionale, exploit di levatura straordinaria con l'opera di Giuseppe Tornatore; con il Museo del Manifesto cinematografico pensato e fortemente voluto, in uno slancio di generosità più unico che raro, dal compianto Filippo Lo Medico; con la carriera di critico e storico del cinema di Emiliano Morreale: tre momenti eccelsi della catena di trasmissione intergenerazionale dell'anima di celluloide. Nel libro di Mimmo e Biagio quelle anime le vediamo crescere già a partire dagli anni '10 (Gioacchino Fasulo-Guttuso) con il nebuloso cinema Aurora, e poi con il Cinema Moderno (attivo fino al 1926 9 e il Cinema Lavore o Parigino (attivo fino al 1932) fino alla moltiplicazione delle sale del secondo dopo guerra. Al di là delle singole tappe, l'impressione che ci coglie però al termine della lettura è di tipo analogico: una rivelazione di affinità con la storia generale del Paese, anziché l'ennesimo, mitopoietico e autoreferenziale, profilarsi della presunta unicità "baarìota" cui spesso indulgono gli indigeni nell'autorappresentare la propria Storia. Bagheria infatti, se è vero che mostra una particolare propensione alla nuova forma di imprenditoria che il cinema rappresenta fin dalla sua fase aurorale (con esercenti che operano in un regime di effettiva concorrenza) rimane comunque in linea con ciò che sta avvenendo in Italia dall'inizio del '900. Dove, se è vero che il primo cinematografo arriva a pochi mesi dall'invenzione dei Lumière nel marzo del 1896, soltanto dal 1909, sostiene lo storico Gian Piero Brunetta, si assiste a una crescita malthusiana delle sale in tutto il paese. E quindi Bagheria, la cui storia cinematografica sembra di estrema singolarità per l'alto numero di sale sorte nel giro di pochi anni rispetto agli altri grossi centri della provincia, si trova invece - e per fortuna - in linea con una storia più grande della sua.
Il punto di vista dal quale invece è orientata la prima parte del volume è quello di maggiore novità. Il cinematografo cittadino viene qui, per così dire, raccontato dall'interno: e in questa narrazione esso diventa un luogo sospeso, onirico quasi, dove scienza, imprenditoria, racconto e riproduzione della realtà si incrociano con esiti imprevedibili. Un racconto attraversato dalla voce degli operatori (i depositari dei segreti della macchina del "fare cinema" ma anche dell'impatto emotivo e cognitivo che le "proiezioni" esercitano sugli spettatori) che sembrano assumere, nel recupero memoriale di quella che per loro è anzitutto esperienza di lavoro (duro lavoro, in sostanza), la vocazione originaria del cinema a sostituirsi ad altre forme di trasmissione orale dell'esperienza condivisa e della memoria collettiva. Emiliano Morreale, nella bella prefazione al volume, sostiene che la corda più autentica del racconto di Mimmo e Biagio sia inconsapevolmente lirica, una sorta di elegia del proiezionista , mestiere perduto, artigianale e industriale insieme, con i suoi segreti perduti. Ciò che più ci colpisce, nel mosaico del racconto dei proiezionisti, è il loro sguardo tutto interno alla sala cinematografica che, dal loro privilegiato ma relegato punto di osservazione, diventa una piazza, l'ennesima, in cui la società baariota si autorappresenta. Una piazza grondante di storie che, nella loro apparente unicità, ci restituiscono invece l'universalità dell'impatto cognitivo e culturale che il Cinema (unica forma d'arte con una data di nascita certa) ha suscitato, confermando la profetica intuizione di Teophile Gautier nel 1841: Il tempo degli spettacoli puramente oculari è arrivato. La soglia d'ingresso nella cultura visuale, con i Lumière, è stata varcata una volta per tutte: e anche Bagheria appone al fenomeno la propria conferma.
Ciò che rende davvero particolari le Storie del cinematografo è però la scelta linguistica degli autori: un impasto di italiano neostandard di media formalità, quasi giornalistico, che nello spazio di una stessa frase sfocia spesso, e soprattutto volentieri, nel baarìoto che, sostengono loro, dopo Baarìa "si scrive come si parla". E in effetti, leggendo e rileggendo il volume, si ha l'impressione di sentire gli autori dialogare con noi, in una prosa che non esita a cedere, e con qualche esplicita voluttà, al demone e al fascino dell'oralità. La cosa più bella però è che quella voce poco alla volta - intrecciandosi con quella dei proiezionisti, degli esercenti, delle tante anime di celluloide con le quali si salda in un nodo inestricabile, Tornatore compreso con il suo lungo memoir - diventa voce collettiva, memoria condivisa, epos forse involontario in cui "le storie non necessariamente, quasi mai, coincidono con il racconto degli storici del cinema" (E.Morreale). Una asimmetria che, credo, sia l'impressione più forte e duratura che le Storie del cinematografo ci lasciano addosso.
Il merito più grande, tra tanti altri, del lavoro di Mimmo e Biagio è quello di mostrare come in fondo il cinema, a Bagheria, sia stato (continua ad essere?) il mezzo più efficace e trasversale per un dialogo intergenerazionale; il luogo dove si sono incontrate e ricomposte - magari nello spazio di un dibattito al cineforum o nella successiva passeggiata notturna allo Stratonello - culture politiche diverse se non contrapposte nel governo della città; uno degli spazi in cui negli ultimi trenta anni, grazie a Giuseppe Tornatore ma non solo, si è provato a compattare la memoria e la storia, oltre che il senso, del luogo Baarìa. E questo perché per loro - ma anche per noi che siamo nati un po' dopo, e forse per quelli che sono venuti dopo di noi - si può dire del cinema, e del nostro rapporto con esso, quello che scriveva nel lontano 1927 il poeta francese Robert Desnos: "Per noi, per noi soli, i fratelli Lumière hanno inventato il cinema. Là ci trovavamo a casa nostra. Quell'oscurità era quella della nostra camera prima di prendere sonno. Lo schermo stesso forse poteva competere con i nostri sogni".
Maurizio Padovano 3 aprile 2017