Giovedì 3 febbraio alle 17.30 verrà presentato a Palazzo Cutò l'interessante lavoro di Vincenzo Lo Meo sulla storia del limone a Bagheria e nel territorio. Tra gli interventi previsti quelli dei prof. A.no Bacarella, già preside della Facoltà di Agraria e dello storico prof. A.no Morreale. Con Lo Meo noi abbiamo realizzato una intervista.
1) Innanzitutto , anche se è desumibile dal titolo, quali sono gli argomenti e le questioni affrontati nel libro?
Ricostruisce le vicende della limonicoltura nel nostro comprensorio, nei comuni di Bagheria, Santa Flavia e Casteldaccia, a partire dal censimento borbonico del 1833-1853 sino ai nostri giorni, ed in particolare l'andamento delle superfici coltivate e le contrade che hanno ospitato la coltura, i sistemi e le tecniche colturali quali si sono evoluti in tale periodo, tratta poi dei mercati di sbocco ed i luoghi di scambio, dei magazzini di "rifazione", del rendimento della coltura, della politica comunitaria attuata nei confronti del comparto e dei motivi infine che hanno portato alla sua marginalizzazione nell'economia locale.
2) Quali sono state le motivazioni che ti hanno indotto a raccontare e ricordare queste vicende?
Attingendo all'esperienza personale e familiare, nonché alla mia formazione tecnica, ho voluto portare un contributo per il mantenimento della memoria collettiva che va perdendosi; una testimonianza quindi per le giovani generazioni, corredata da dati e numeri che misurano i vari aspetti delle attività dirette e collegate alla limonicoltura, un documento di ciò che è stata l'economia del limone per le famiglie bagheresi e degli stili di vita che hanno accompagnato tale economia.
Ho cercato in particolare di documentare il benessere che la coltura ha apportato al nostro territorio nei centociquant'anni di presenza e sino alla mia generazione, ma nel contempo l'operosità che accompagnava e richiedeva quel benessere, benessere ed operosità entrambe perdute.
3) Potresti fornire qualche elemento esemplificativo di ciò che il limone ha rappresentato per l'economia bagherese?
Ho calcolato che annualmente, a fine anni Sessanta e primi anni Settanta, gli oltre 2000 ettari di limoneto appartenenti ai territori di Bagheria, Santa Flavia e Casteldaccia, generavano mediamente un prodotto netto, la nuova ricchezza prodotta, di circa 72 miliardi di lire l'anno, in termini monetari della lira al 2001, che andavano distribuiti soltanto ai proprietari e braccianti agricoli, direttamente impegnati nella coltivazione.
Le attività indotte creavano a loro volta flussi di reddito di gran lunga superiori nelle diverse e multiformi attività commerciali, artigianali e industriali coinvolte, in quelle di intermediazione, pure molteplici, nel lavoro non agricolo e professionale e nei capitali investiti per i settori collegati a quello agricolo. Agli inizi degli anni '70 i due terzi dell'occupazione erano generati dal comparto agricolo e da quello dell'indotto.
4) Quale l'ordine di grandezza del reddito che il limoneto forniva?
Ho accertato che il massimo rendimento la coltura lo assicurò a metà degli anni '50, quando un limoneto forniva mediamente al proprietario coltivatore diretto un utile netto di oltre 5.100.000 lire per tumulo, pari a L. 1.517 per chilogrammo di limone prodotto, in termini della lira del 2001, oltre le quote di reintegrazione dei capitali investiti, che pure costituivano consistenti introiti monetari a favore del proprietario del fondo (per ogni 6 limoni cioè al proprietario restava un utile netto di oltre 1.500 lire, coprendo tutte le spese esplicite e cioè gli esborsi effettivi ed anche quelle implicite e cioè i costi calcolati, che costituivano invece pure introiti monetari a favore del proprietario).
Una ricchezza eccezionale per una attività agricola.
Nel periodo 1850-1970 il limone è stata la coltura più redditizia del mezzogiorno d'Italia e nel palermitano in modo particolare, per la presenza dei verdelli che raggiungevano prezzi elevati.
5) Il limone è definitivamente perduto o ci sono margini per ritrovarlo?
Nel nostro territorio non credo vi siano più margini significativi per il ritorno della sua coltivazione sia a causa dei condizionamenti strutturali che caratterizzano le unità produttive sia per gli interventi della politica agricola comunitaria quale si è evoluta sino al 2008. Il premio diretto agli agricoltori è intervenuto tardivamente, dal 2008 in poi, così come le nuove acque a costi contenuti sono arrivate solo da un paio di anni, quando già le strutture produttive erano state largamente dismesse. Se entrambe le misure fossero arrivate vent'anni prima, la storia sarebbe stata diversa.
6) Quali colture potrebbero sostituire il limone?
Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni, nel nostro comprensorio si è verificato un fatto anomalo: il limone non è stato sostituito da altre colture. Diversamente infatti da altre aree limonicole dismesse ad esso, da noi, è succeduto solo l'abbandono, come estesamente analizzo nel libro.
Ciò è tanto più "strano" in quanto ci troviamo in un'area metropolitana con oltre un milione di consumatori e, in molte delle nostre famiglie, proprietarie di terreni ben serviti da acqua, vi sono giovani disoccupati che preferiscono andare in giro per l'Italia a svolgere lavori precari e mal pagati. Ciò dovrebbe farci riflettere.
C'è tuttavia qualche raro esempio riuscito di giovani che vogliono scommettere, magari utilizzando gli aiuti comunitari, e rimanere a coltivare i propri terreni, alcuni in regime di coltivazione biologica mantenendo ancora il limone, altri con colture di nicchia rivolte al locale mercato e che riescono a ricavare un reddito, il quale, seppur ridotto è tuttavia maggiore di quello dei lavori precari svolti in giro per l'Italia.
Resta poi la questione della salvaguardia dei residui appezzamenti e dei manufatti irrigui di corredo al limoneto quali testimonianze della cultura legata al limone.